Vissero i fiori e l’erbe, vissero i boschi un dí…
Silvana aveva trasmesso conoscenze e suggestioni letterarie a generazioni di studenti: poi la “vita in diretta” nella scuola era finita, ma sempre brandelli di versi volteggiavano nella sua mente. Ora il suo sguardo intento indugiava su malghe oblique e macchie boscose, mentre una verde quiete scendeva dagli occhi al cuore.
Da anni non amava più il mare per le sue vacanze: i contrasti violenti dei colori ferivano la retina, i suoni erano aggressivi così come gli odori, con il salmastro cancellato da aromi di creme ed olii solari. Ben diverse e suggestive le atmosfere montane: ad ogni passeggiata appena fuori dal paese si apriva uno scenario arioso; entro le quinte di cime lontane il cielo era solcato dal planare dei falchi; variavano le gradazioni di colore alle diverse altitudini; si diffondeva il sentore di erbe miste a fiori esaltati dal sole o irrorati dalla pioggia recente. E poi anche il suo nome, che sapeva di bosco e foresta, recava in sé come un destino…
Per il suo ultimo giorno in montagna aveva scelto di staccarsi dal gruppo di anziani-giovani di cui faceva parte: molto affiatato, ma anche un po’ invadente nella scelta delle mete e nella conversazione. Stare insieme sarebbe equivalso ad un assaggio dell’ormai prossimo rientro nelle spire degli interessi, eventi, contrasti e – perché no? – equivoci della convivenza cittadina.
In solitaria prese quindi un sentiero che dallo scoperto virava ben presto verso il boschivo: mentre lo sguardo indugiava sugli alberi, ancora un frammento poetico si materializzò alla mente: Erra tra i vostri rami il pensier mio, sognando l’ombre d’un tempo che fu…
Senza alcun timore si addentrava, anzi aveva cominciato il consueto gioco delle forme e delle evocazioni. Nelle campagne assolate del sud di solito immaginava di riconoscere Apollo inseguitore e Dafne ansante in un tronco bipartito d’ulivo dai rami divaricati e sfuggenti: ma qui non c’erano ulivi nodosi o arbusti d’alloro scompigliati. C’erano però i larici dagli snelli fusti, allineati nel primo accenno delle magie autunnali che si sarebbero accese di lì a poco. Uno fra essi, dal tronco massiccio, sembrava il guardiano di tutti gli altri: che dovesse chiedergli il permesso di proseguire?
Con la mano ne saggiò la corteccia e con l’orecchio la sfiorò. Voleva sentire se in quel corpo vigoroso e compatto non potesse per incanto aprirsi un ingresso, un passaggio: lei voleva portarsi dietro solo la sua, di storia, fuggendo dalla Storia ed entrando nel Mito per cambiare linguaggio ed apprendere quello del vento e degli uccelli, regredendo nella scala dell’esistenza… Perché gli uomini sarebbero più felici se fossero tutt’uno con lo spirto silvestre, d’arborea vita viventi…
Cercando di evitare una fila di formiche – ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano a sommo di minuscole biche, ecco affiorare in rima altri versi – si sedette lentamente sul terreno. Le spalle premevano la corteccia come per assorbirne la linfa: non era un albero di città assediato dal cemento, era una forza della natura.
Da bambina, sulle soglie dell’adolescenza, in un tema su La Festa degli alberi aveva scritto che, appoggiata ad un tronco robusto, ne aveva appreso come fosse il vento a raccontare alle fronde gli ambigui segreti degli uomini, le loro imprese e i loro viaggi, e si era sentita in pace con il destino, pronta ad affrontare con coraggio le gioie e i dolori che le avrebbe assegnato.
Non era stato sempre così… Chiuse gli occhi.
Un fruscio improvviso la scosse: intravide un lampo fulvo, ma non era uno scoiattolo; un’ombra minuscola, non un riflesso creato dal sole, le era passata accanto. In un tempo lontano affamato di letture c’erano stati per lei fate e ninfe, elfi e gnomi: forse l’incanto si ripeteva?
Un ciuffo di pelo morbido le solleticò il viso: una marmotta! Il suo fischio soffiava parole, come se la invitasse a entrare… Ma certo! Nel tronco c’era una cavità, come quella dove, da bambina, si rendeva invisibile giocando a nascondino, per poi essere scoperta con un brivido di smarrimento ed eccitazione. Vi entrò e la marmotta le disse che, invisibile al mondo, lì resisteva un tempo mite, l’originaria civiltà che il violento tempo dell’aquila aveva sovrastato. Ma, se si cercava bene nel mistero del bosco, tutto ritornava!
“Voi uomini avete perso il vostro posto nella Natura. In Essa la vostra anima scomparsa riappare, ma non l’afferrate!”
Sollevata sulle zampette sembrò guidare il suo sguardo: distillavano i rami una pioggia pigra di dardi su un margine erboso che una ninfa dal bianco velo attraversava leggera. Era Ondina che correva al suo lago? O Soreghina, figlia del sole, che ne beveva i raggi? O forse invece cercava di ripararsene la principessa della luna che, pallida come i suoi monti, attendeva di andare incontro al suo amato con le prime ombre della sera?
“No – le diceva la marmotta soffiando – lei è la tua anima, la ritrovi in queste atmosfere iridescenti che solo i miti sanno ricreare nel lago del cor: non farla fuggire! Riportala con te nel tuo mondo di realtà concrete e stringenti: è il nostro dono… Noi restiamo qui, nei confini del regno, ma aspettiamo gli umani per ridar loro la memoria, la capacità di sognare… La vita è sogno, ha scritto un poeta: ricordi? Noi qui diciamo che il sogno è la vita”.
Si riscosse: quanto tempo era trascorso? Alla fine del sentiero c’era la piccola chiesa bianca con il campanile aguzzo che bucava il cielo. Lì aveva pensato di sostare nei percorsi di quell’ultimo giorno fra le montagne: forse per un bisogno di sacro, prima di tornare alla morsa della quotidianità cittadina.

Gianfranca Melisurgo