La curiosità mi ha spinto fino al lago di Alborelo, in mezzo al digradare di collinette, montagnole e boschi di latifoglie. Seduto al bar “Stangl Hubert” studio la mia mappa dei dintorni per assicurarmi di non metterci troppo a raggiungere la meta, il cielo si sta coprendo di nuvoloni neri.
Il lago, creato artificialmente nei primi anni cinquanta, è uno specchio che riflette il cielo. Si dice che ancora negli anni sessanta qui praticassero riti pagani a propiziare i raccolti, le donne danzavano immerse fino ai fianchi nell’acqua e gli uomini gettavano spighe di grano tra le acque per alimentare la fame degli dèi e ottenere la loro benevolenza. Il prete insediatosi nella chiesetta dei dintorni alla fine degli anni settanta, molto lontano dalla mentalità hippie, degradò questo rituale definendolo “rito satanico” e restarono solo alcune donne a praticarlo, di nascosto, nelle notti di luna piena. Non si sa se davvero donne, o fate, o streghe.
Comincia a piovere mentre scendo per il sentiero. La pioggia rallenta il mio cammino e m’inzuppa. Dopo circa due ore arrivo a un rifugio che offre posti letto in camerata a 16 euro a notte e una cucina in comune. Non mi lascio scappare l’occasione, dato che ho voglia di stare al riparo da questa pioggia sferzante che sembra volermi dissuadere dal mio intento. Varco le porte del rifugio con grande sollievo, ma a quanto pare sono l’unico ospite e non c’è nessuno nemmeno alla reception. Sicuramente lo scarso afflusso di turisti dovuto al coronavirus e il tempo inclemente degli ultimi mesi non hanno invogliato a investire nel mantenimento di questi spazi. La porta però ha facilmente ceduto alla mia spinta, non era chiusa a chiave: dimenticanza o pietà per i viandanti? Ad ogni modo mi reco al lago con circospezione ed è già l’imbrunire. Una flebile luce mi viene incontro. È una lanterna distante. Quando si avvicina, vedo che è un anziano del luogo, che mi apostrofa con voce gioviale: “Giovane, non andare in giro di notte, che ti pescano le anguane.”
Gli rispondo ridacchiando: “Veramente sono io che vorrei pescare qualcosa, e anche le anguille andrebbero benissimo!”
Lui ride più forte di me: “Non le anguille! Le anguane!”
Ci sediamo su due grandi pietre in riva al lago mentre io provo a pescare e lui mi spiega, con le sue parole mezze in italiano e mezze in dialetto che cercherò di tradurre, chi sono le anguane, mentre la luna comincia a fare capolino e a riflettersi sull’acqua: “Sono donne molto belle, ma dai seni a penzoloni. Dicono che portino i figli su delle gerle, sulle spalle, e riescano ad allattarli anche da lì.”
“Sono come sirene di lago?”
“No, no. Sono legate al lago e ci vengono a lavare i panni, ma non hanno la coda di pesce o di serpente. Si potrebbero confondere con donne comuni se non fosse per i piedi di capra.”
“Ma alla fine sono streghe che fanno malefici?”
“No, sono spiriti incarnati della montagna, non fanno del male, ma sanno difendersi, mai cercare di imbrogliarne una. Hanno pettini d’oro magici.”
Vengo a scoprire dal suo racconto che le anguane hanno pelle chiara come pietra calcarea, occhi verdi e vestiti di alghe di torrente intrecciate col muschio delle rocce, capelli lunghi e scuri o rossi. Con l’arte della magia si sono diffuse in varie zone di montagna già dai tempi antichi, colonizzando in particolare i luoghi adiacenti ai laghi come il lago Bai de Dones, il Ghedina e il lago Scin, o il fiume Ansiei. Sembra che fossero sempre allegre e cantassero in una lingua incomprensibile ai più e che, solo quando si arrabbiavano, potevano far scatenare una tempesta. Spesso si sposavano e avevano figli, erano mogli e madri tenerissime, molto premurose, che rendevano i loro mariti felici finché, nelle leggende, gli stessi non chiedevano loro di andarsene in quanto venivano derisi dagli altri abitanti del luogo per il fatto di avere una moglie dai piedi di capra.
Sollevo il pesce, piccolo e magro, con la mia canna improvvisata e l’uomo mi aiuta ad afferrarlo prima di accomiatarsi e augurarmi buona fortuna.
Senza la luce della sua lanterna, quasi a tentoni, cerco la strada di ritorno verso il casone, l’unica luce è quella della grande luna riflessa nel lago. In lontananza riconosco l’ostello, le finestre al piano terra sono illuminate. Mi rallegra sapere che finalmente c’è qualcuno alla reception a cui pagare la stanza e avere, magari, qualcosa d’altro per cena, il pesce è davvero piccolo.
Varcata la soglia, una ragazza dallo sguardo dolce mi sorride dicendo: “Benvenuto! Lo zaino era tuo, allora?”
La mia nuova conoscenza, scalza e coi capelli raccolti, è davvero graziosa mentre gira con il mestolo un risotto ai funghi che sta finendo di preparare. Condividiamo aneddoti d’infanzia e riflessioni anche intime, mi sento molto a mio agio con lei. Parliamo a lungo e ridiamo, mi pare di conoscerla da sempre. La cena è squisita e il dopocena, inaspettato e più che benvenuto, ancora di più. Dopo una risata in cui involontariamente le nostre teste si avvicinano, lei mi guarda con tenerezza. Mi si avvicina ancor di più per baciarmi e la sua bocca morbida ha il sapore della vaniglia, a fermare le sue mani non ci penso proprio, ci avvolge una tenera passione che ci trasporta sul letto. Dormiamo assieme il più dolce dei sonni. Mi arriva però di prima mattina un messaggio dal mio capo che mi riporta all’ordine, entro un paio d’ore devo essere in ufficio, ci sono problemi con i fornitori. In realtà non vorrei andarmene per tutto l’oro del mondo, ma è uno di quei casi in cui non si può dire di no.
Le faccio una foto per poter ricordare la sua bellezza e poi la sveglio accarezzandole la testa: “Sono stato benissimo, vorrei tanto potermi fermare, ma davvero devo andare via, ora. Ti lascio il mio numero qui, sul cuscino. Promettimi che mi chiamerai. Giurami che non sparirai.”
Lei sorride ma non apre nemmeno gli occhi. Le bacio la fronte e mi alzo, rivestendomi rapidamente.
Raggiunta la porta, mentre la saluto con uno speranzoso “arrivederci” non riesco a fare a meno di notare per la prima volta che non ha voluto togliersi il reggiseno, che sul pavimento accanto al letto ci sono degli scarponi da montagna con, al posto della suola, robusti zoccoli di cervo e, sul comodino, un grazioso pettinino per raccogliere i capelli, indubbiamente d’oro.
Camminando rapidamente lungo il sentiero e i suoi saliscendi per raggiungere il bar e il parcheggio, non riesco a smettere di pensare a lei e farmi domande che non trovano risposta. Salgo in macchina posizionando il cellulare nell’alloggiamento vicino all’accendisigari e, prima di attivare il navigatore che mi darà indicazioni per tornare a casa, apro la fotocamera per controllare com’è venuta la sua foto – e mi si blocca il respiro quando vedo un’immagine con l’impronta di una testa su un cuscino vuoto.

Silvia Favaretto