L’uomo si guardò la mano destra. Era rossa, e screpolata per il freddo. Ne osservò prima il dorso, poi il palmo, e rimase così, qualche istante. In momenti come quello – la nebbia attorno, la pelle dolorante come piena di mille tagli microscopici, la carta della mappa sempre più fastidiosamente bagnata – l’idea di essere lì dov’era lo colpiva come un flash improvviso, violento, da fargli chiudere gli occhi, da fargli vibrare la spina dorsale. Come mai, in che senso, era lì? Chi, o cosa, lo aveva convinto? Un microshock, un balzo, simile a un incubo: strizzò le palpebre, affondò le unghie nelle mani, come per afferrare un senso di realtà. Poi rimise il guanto e guardò il pezzo di carta. Lesse: Lamaccione, Picco del Cervo, Passo Inferiore. Tutti nomi che non gli dicevano nulla. Credeva di essere sulla buona strada, e forse in effetti lo era: ma chi poteva saperlo, con tutta quella nebbia salita così in fretta, arrivata a trasformare il paesaggio in un insieme di segni separati, che emergevano dal niente come mostri, senza nessuna corrispondenza con quel mondo unitario e coerente che era, invece, la mappa che teneva in mano. Una topografia senza referente, segno di quel luogo come di altri, altrove – o almeno per lui, che di montagna non sapeva nulla, e in effetti perché era lì? E perché oggi?
Quel giorno doveva essere anni prima. Lui non avrebbe avuto rughe sul volto, né le mani screpolate: lei avrebbe di sicuro portato con sé una crema, una soluzione, qualcosa.
Se lo erano promessi tante volte, attratti dai racconti di chi lì c’era stato: avrebbero fatto insieme quel percorso, per capire se davvero poteva esserci qualcosa di così speciale.
La prima volta che lui ne aveva sentito parlare era un bambino: una sera un amico del padre, un fisico, gli raccontò che fu proprio in quel posto che il matematico Taldeitali ebbe l’illuminazione e formulò la prima legge di nonsiricordavacosa. Sempre lì, poi, l’astronomo Fernando Orco – questo se lo ricordava – aveva scoperto qualcosa legato alle anomalie gravitazionali dei corpi celesti.
Alcuni anni dopo venne a sapere che il cane di un amico di scuola aveva scelto proprio quel punto per morire. Con lei poi, adulti, cercandole le storie si erano moltiplicate: gente che trovava l’amore, gente che guariva; sembrava che anche un noto cantautore, di cui non si poteva dire il nome, avesse composto lì il suo disco migliore. Ne parlavano, loro, a volte con il cinismo e il distacco di chi ha visto e sentito tante cose, e sempre creduto a molto poche; l’ironia di chi vuole verificare, dimostrare per dissacrare. In altri momenti, invece, sembrava che il luogo potesse avere un potere anche per loro due: e allora si dicevano di aspettare, che avrebbero usato quell’energia, come la chiamavano tutti, quando se ne fosse presentata l’occasione giusta, per non sprecarla. Volevano qualcosa da desiderare o da scongiurare, per andare. Ma poi, un po’ per mancanza di grandi scosse, un po’ per pigrizia, alla fine ne avevano sempre e solo parlato – un po’ troppo spesso per essere qualcosa che, in fondo, entrambi sapevano che non avrebbero mai fatto. Ma forse il punto era proprio quello. E ora che lei non c’era più, e che lui si sentiva così smarrito e solo, gli era sembrato sensato partire, senza pensarci tanto, in un giorno qualsiasi, un po’ simile a quello prima e a quello dopo. Per lei, per se stesso, per capire.
Negli ultimi mesi, quando si era ammalata e la questione da faticosa era diventata impossibile, ne parlavano sempre più spesso, cercavano articoli, testimonianze. Lei nelle ultime notti lo sognava, a volte: e diceva che era come camminare, ormai, in un ricordo di qualcosa che era già stato.
Anche lui si sentiva così, ora, in effetti. Era lì per la prima volta, era lì di nuovo, non c’era mai stato e c’era stato sempre. Era, fondamentalmente, come smarrito in un flashback di qualcosa che non era mai esistito. Una sensazione piuttosto strana, da conciliare con il brutto tempo, le pietre scivolose e la certezza di avere, nella realtà come nell’immaginazione, di nuovo sbagliato strada. Non era così incredibile, comunque, pensava guardandosi attorno. Un po’ di terra bagnata, qualche albero, una pozzanghera qua e là, nevischio e aria umida tutt’intorno. Ma in effetti, pensò, cosa ci aspettavamo?
Avrebbe dovuto essere ormai in prossimità del posto, stava scendendo il crepuscolo, e iniziava ad avere paura: un qualcosa che gli capitava sempre più spesso. E così, lentamente come era salito, senza nemmeno rifletterci troppo, iniziò la discesa. Fu qualche minuto più tardi che si trovò, per caso, davanti a quello che doveva essere il bivio. Nonostante la carta continuasse a rappresentare nessun luogo o mille altri diversi, osservando la realtà e confrontandola con la descrizione ricevuta nella hall dell’albergo, non c’erano molti dubbi. Due grossi sassi con striature rosse: uno sembra un uovo di gallina, l’altro un budino. Rimase allibito: l’uovo sembrava ffettivamente un uovo, ma il budino era un budino, la superficie superiore completamente rossa, e il caramello che colava lungo i bordi. Si avvicinò e studiò meglio la pietra, e finché non la toccò con la mano, fu in dubbio sulla sua durezza.
Gli tornò in mente la storia del cane. Se quel posto era andato bene per quell’animale, nella peggiore delle ipotesi sarebbe andato bene anche per lui. Si rese conto di quanto fosse diventatopessimista, negli anni, ed era un pensiero un po’ amaro. Camminò in un sentiero stretto circondato dagli alberi, e si ritrovò in una piccola radura con di fronte uno strapiombo, proprio mentre le ultime nuvole si aprivano. Una delle ultime cose che gli aveva detto la moglie era che, quando quella storia così triste e banale sarebbe finita, senza il corpo pesante e malato sarebbe passata di lì, prima di andare là dove si va quando non si è più. Sarebbe passata da lì e si sarebbe fermata un attimo. Ne sarebbe valsa la pena.
Lui si avvicinò al dirupo e guardò davanti a sé. L’ultimo sole disegnava cerchi di luce nella vallata.Vedeva i campi coltivati, le vigne, la strada statale con le macchine minuscole, puntini; e le case,tante case, piccolissime che sembrava si potessero prendere con due dita e spostare. Il fiume, infondo, era argento, carta stagnola. Da sinistra a destra montagne enormi e dietro, ancora, altremontagne, come fila di denti di qualche creatura, alcune già incappucciate dalla prima nevedell’anno. Si sedette per terra, l’erba era ancora umida, aspettò qualche minuto. Il vento gli facevamuovere i capelli, scompigliandoli come non gli piaceva. E poi, in un istante, e per un solo istante,capì, sentì o forse vide qualcosa che lo convinse a rialzarsi, e con calma riprendere la strada da cui era venuto. Come prima, ma un po’ diverso da prima.

Camilla Marese