Lei aveva le mani attorcigliate ai fianchi, aveva la nuca esposta alle tormente, lui aveva uno specchio di luna sul terreno, le aveva detto il silenzio, lei aveva risposto: silenzio. Le aveva detto io sono, lei aveva risposto: io sono – e dentro diceva io sono: niente.
Nell’albero dietro alla collina una grotta conservava amuleti antichi, lei si nascondeva nella roccia e diventava roccia, lui teneva la luna brillante tra le mani, lui diceva luna, lei rispondeva: luna.
Lui non diceva nulla. Lei rispondeva nulla.
Non capire significava avere una bocca come una cavità lucida senza organi palpitanti, lei aveva aperto la bocca a lui per vederci il dentro, e dentro c’era uno specchio che specchiava altri specchi e ripiegava le lune, e le comete e le stellate di neve. Fa freddo, diceva. Lei rispondeva: fa freddo.
*
Caro, diceva, perché non mi guardi, caro, diceva, perché non mi senti, caro, diceva, perché non mi spingi, caro, diceva, perché non mi piangi, caro, diceva io piango, caro, diceva io sento, caro, diceva io mi spingo, caro, diceva, io vedo il sole, caro, diceva, tu vedi la luna.
Caro, scriveva, ti scrivo lettere al contrario, tu ti immergi nell’acqua, caro, scriveva, ti scrivo lettere senza tregua e tu non mi dai tregua, caro, scriveva, ti scrivo lettere senza che tu mi possa pronunciare, io che ti pronuncio gridando e non esce voce.
*
Avevano fame, trascorrevano le giornate distanti, lei nella grotta gettava ancore nel lago per non cadere, lui nel lago guardava l’ancora e la gettava, ancóra la gettava, pullulava del proprio pullulare, aveva visto un cielo ed era un volto, lei aveva un volto e non aveva un cielo.
In alto le stalattiti le premevano i pensieri, aveva un canto conficcato nel costato, pioveva dentro e fuori e fuori e dentro, pioveva i temporali della mente, scappava da sé stessa per rincorrere un cerbiatto.
Ma il cerbiatto era di ghiaccio, impagliato e congelato, lei gli portava una giacca per sciogliere il ghiaccio, ma lui non si scioglieva.
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Caro, diceva, perché l’erba è alta e tu non mi raccogli, caro, diceva, perché mi dicevano che i fiori si schiudono al mattino e ora vedo sempre rugiada, caro, diceva, perché c’è cenere nelle tue mani, caro, diceva, perché io accumulo fuoco e tu non accumuli niente.
Caro, scriveva, ti scrivo lettere e non rispondi, caro, scriveva, ti scrivo lettere e tu le stracci, caro, diceva, io sono una lettera e non ho parole, caro, diceva, sono una parola e tu non mi pronunci, caro, diceva: io ti ripeto, tu ti guardi, ti getti come un pesce nel riflesso.
*
Lei non aveva più fame, si circondava di rovi come lui l’aveva creata, lei non aveva più niente se non una eco flebile di fiati incompiuti, il suono dei flauti era un rumore di fondo, la città lontana tremava, lui cerbiatto di ghiaccio si avvicinava ai sempreverdi, raccoglieva bacche e le ingoiava, diventava un corpo di corpo, pieno come una gestante a festa.
Lui parlava la lingua degli animali che urlano il terreno, lei tossiva la notte, lui parlava la lingua sconosciuta di chi parla da solo nella scelta la solitudine della testa, lei si districava dai rovi e diventava radice.
Lui non l’ha mai salutata. Lui si è gettato, si è preso l’amore tra le gambe del lago. Lui ora è un fiore giallo. Lei è appassita come ossa, le ossa di una voce mai ascoltata.

Mariasole Ariot