Dopo il lungo viaggio, la valle si apriva ad abbracciare il cavaliere, mentre un ultimo raggio di sole gli mostrava le colline digradanti immerse in colori pastosi e morbidi; in fondo, il fiume snodava sinuoso le sue spire. Entrò in paese e si fermò in una locanda.

Mentre mangiava, ascoltò i discorsi delle ragazze belle che lo fissavano di sottecchi: parlavano di un impegno a cui bisognava adempiere, un compito che doveva toccare a qualcuna di loro.

Intervenne: “Non posso fare a meno di chiedermi cosa mai sia questo dovere che è sulle vostre labbra, l’insana certezza che avete nel sapervi obbligate da qualcosa che non sia la bellezza della vostra giovane vita.”

Una rispose: “Si tratta di un patto, che i nostri avi hanno stretto col fiume: per evitare piene e alluvioni che spazzerebbero via le nostre case, una ragazza deve recarsi all’argine e cantare, così da placare le acque che amano le melodie più dolci.”

“Credo che siano ormai passati i tempi dei sacrifici umani!”, urlò. Si ricordava solo le parole “patto” e “deve”, ma non si accorse che nessuno aveva parlato di sacrifici.

Le ragazze furono rapite dal suo sbattere ciglia e tradizioni con la medesima sicurezza con cui avrebbe di certo maneggiato la spada, se ne avesse avuta una; si dispersero a diffondere il suo arrivo, lasciandolo a riflettere sulla situazione.

Decise di dirigersi al fiume: vedere il nemico lo avrebbe aiutato a capire.

Il paese era bello, con spiazzi terrazzati collegati tra loro da strette viuzze che si insinuavano tra balconi fioriti e panni stesi ad asciugare; su tutto predominava l’olezzo persistente delle stalle.

Il nemico non era terribile, e nemmeno impetuoso come se l’era immaginato: solo un corso d’acqua, placido e profondo, circondato da verdi erbacce e fiori di campo.

Si sedette tra l’erba a pensare, mentre il giorno finiva senza di lui e la luna appariva chiara in cielo. Luna piena. Giunse una fanciulla e si sedette sulla riva; si schiarì la voce, ma a lui sembrò un sospiro. La bellezza di quel canto arrestò il respiro indifferente delle acque, che si gonfiarono pulsando verso la fonte dell’armonia.

Lui stava fermo e non vedeva nulla che non fosse la bellezza di lei: la voleva, per sé e per toglierla al nemico. La melodia durò tutta la notte, in un alternarsi di scambi sommessi tra la donna e il fiume, esplosioni di note e gorgheggi: la ragazza e l’acqua si amavano nel buio.

All’alba la ragazza si alzò, con calore salutò il fiume che a sua volta proruppe in dolci, nostalgici frullii, mille lacrime d’amante a sfiorare le ciglia di lei.

Il cavaliere si recò dal capo del villaggio e non gli fu difficile convincerlo: “Per questo, dunque, mi condurrete dalla fanciulla, alla quale spiegherò la realtà delle cose; un mese basterà per costruire poi degli argini sufficienti a garantirvi la sicurezza meglio di qualsiasi stupido concerto notturno.”

Trovarono la fanciulla nell’orto, un grosso gatto rosso si strusciava su di lei con confidenza. Si alzò e i suoi occhi si alzarono con lei a fissarlo; si presentarono e si spiegarono.

“Con il canto il nostro amore giunge al fiume, che si gonfia senza distruggere, dando la vita invece che la morte; non è mai stato un ricatto il rispetto reciproco: rispetto per i limiti nostri e dell’acqua, rispetto per un amare diverso da quello che tu conosci e che, mi sembra, non ti preoccupi di capire!”

Il cavaliere non prese in considerazione le parole, ma le labbra che le avevano pronunciate e fu invaso dall’unico tipo di amore che comprendeva: il desiderio.

Si scontrarono, lei parlava a chi non l’ascoltava in una lingua che ormai solo il fiume sembrava capire, da lontano: quando se ne accorse, tacque. Il cavaliere aveva vinto: lei non sarebbe più tornata sull’argine e nessun’altra mai più avrebbe dovuto farlo; il fiume sarebbe stato imprigionato in una gabbia di legno e tutto finiva lì, anziché cominciare.

Lui se ne andò convinto d’averla colpita, senza vedere le ferite che le laceravano gli occhi.

La ragazza tornò la sera all’acqua, le portò il suo dolore con canti sommessi e rabbiosi accordi: il fiume, stupito della visita, scagliò la sua ira verso le travi che già qualcuno aveva cominciato ad accumulare sulla riva. Immerso nell’ombra, il cavaliere osservava e non sapeva.

Furono giorni attivi nel villaggio, era necessario raccogliere materiale sufficiente a incatenare le onde, per salvarsi dall’abbraccio mortale rischiato mensilmente fino ad allora. Lei non parlava e non cantava più.

Solo una volta si seppe che aveva detto, forse rivolta al gatto rosso, che mai una ferita si era ricucita con legno e corda da pescatori, che il sangue avrebbe impregnato i vestiti e il mantello dello straniero e lei avrebbe cantato sulla sua agonia.

Impegnato tra gli ordini sul cantiere e le cene in suo onore, il cavaliere non dimenticava il desiderio: cercava gli occhi di lei ovunque, sicuro che prima o poi avrebbe capito la verità, si sarebbero uniti davanti al fiume, in un trionfale matrimonio d’amore e passione.

A volte gli sembrava di aver sognato il sangue, ne avvertiva il sapore in bocca al risveglio, mentre il fetore in cui si era imbattuto sui campi di battaglia imbeveva in certi momenti l’aria: l’odore delle piaghe, della morte che arriva piano.

Passò un mese veloce per chi attendeva eventi terribili.

Passò un mese lentissimo per chi aspirava a nuove vittorie.

Per un mese, il cielo aveva pianto sui tentativi del desiderio, sul silenzio, sul legno accatastato e legato stretto.

Quella sarebbe stata notte di luna piena.

L’acqua cadeva implacabile all’acqua.

D’improvviso smise.

Si alzò un forte vento, sibilava tra le travi: il rumore era assordante, sembrava che la terra stesse per spaccarsi, gli alberi ondeggiavano sopra i tetti.

Il cavaliere aveva sapori metallici tra i denti stretti in un sorriso intagliato, congelato.

Lei ascoltava, aspettava.

D’un tratto il fiume cominciò a parlare, la sua voce sovrastò il tutto, qualcuno urlò: “Gli argini sono crollati!”.

E fu troppo tardi.

L’acqua nera e livida riempì con un boato le case, strappò il sorriso al cavaliere sbalzandolo fuori, nel fango: tutto divenne un’enorme palude, da cui spuntavano tetti e tronchi d’albero, corpi gonfi, mani senza appigli. Sotto la luna cantava la ragazza, ed era un canto di morte: accompagnava con la sua voce quella del suo amore, amava nel buio il suo corpo sinuoso e tremendo, la sua passione disperata, il suo terrore di perdersi. Agli ultimi gorgoglii risposero note sommesse di addio, un gemito nella notte.

Il silenzio.

Franca Rossi